Con la riforma introdotta a partire dal d.p.c.m. n. 171 del 29 agosto 2014, il ministro Franceschini ha istituito 32 musei e parchi autonomi, e ha trasferito i musei e i siti non autonomi fino ad allora dipendenti dalle soprintendenze a 17 neo-istituiti ‘poli’ (ora ‘direzioni’) museali regionali. Poiché l’intera riforma del 2014 è stata impostata sotto il vincolo del ‘costo zero’, le risorse dirigenziali per istituire i predetti 49 nuovi organi sono state sottratte alle altre strutture del Ministero, con la conseguenza della contestuale soppressione di altrettanti istituti, per cui il comparto territoriale delle ex Belle Arti è passato dalle 75 soprintendenze territoriali specializzate nei rispettivi tre settori archeologico, architettonico e paesaggistico e storico-artistico del 2013 a solo 39 soprintendenze miste ‘uniche’ per tutti i beni, e di conseguenza il suo organico dirigenziale è passato da 75 dirigenti tecnici specializzati dedicati alla tutela a 39, con grave riduzione (36) di questa indispensabile risorsa professionale e gestionale.
Sul piano metodologico va osservato che una trasformazione così radicale dell’intero apparato della tutela e conservazione dei beni culturali nel nostro Paese e dello stesso suo modello organizzativo basato sulle soprintendenze specializzate per settore di beni nelle quali erano incardinati tutti i musei, consolidato da oltre 130 anni avrebbe dovuto essere preceduta da uno studio approfondito di fattibilità e soprattutto da un’ampia discussione di merito aperta alle componenti culturali, professionali e sociali del settore, che sono del tutto mancati. L’unico aspetto della riforma sul quale il ministro si era concentrato nelle sue generiche anticipazioni, fornendo qualche motivazione, era infatti il conferimento di una propria autonomia gestionale ai musei statali, a partire dai più importanti, per adeguarli al modello vigente negli altri Paesi e consentir loro di poter gestire direttamente i bilanci anche in entrata, favorendo sponsorizzazioni, accordi di concessioni di servizi e collaborazioni. Ma sull’entità della trasformazione, che non si è limitata ad una dozzina di musei più importanti e ne ha compresi anche molti di media importanza, e soprattutto sugli altri aspetti della riforma, e cioè il distacco dei rimanenti musei e siti minori dalle soprintendenze con la contestuale istituzione dei poli museali regionali e la drastica riduzione del numero delle soprintendenze con unificazione delle loro competenze quale corollario della creazione di così tanti nuovi organi, non vi era stata alcuna precisa anticipazione. Sulla unificazione delle soprintendenze vi è stata soltanto una giustificazione postuma, con cui il ministro ha dichiarato di aver voluto in tal modo istituire uno ‘sportello unico’ per tutti i tipi di beni per unificare gli interlocutori istituzionali dei cittadini detentori di beni sottoposti a più tipi di vincolo, prima di competenza di soprintendenze specializzate diverse, ‘avvicinando così il Ministero ai cittadini’ (affermazione che però sul piano geografico non valeva tanto per i soprintendenti e le loro sedi centrali, ridotte da 75 a 39, quanto per gli uffici decentrati delle precedenti soprintendenze specializzate, che ora dipendevano da quelle uniche, essendo rimasto peraltro immutato l’apparato complessivo degli uffici).
Sempre sul piano metodologico va rilevato, sotto il profilo tecnico-organizzativo, che il ‘peccato originale’ da cui sono derivate le più gravi conseguenze disfunzionali per l’apparato ministeriale (oltre all’unificazione delle soprintendenze, lo smembramento dalle loro sedi degli archivi e laboratori rimasti nelle sedi dei musei distaccati, la soppressione di posti e sedi dirigenziali nei settori degli archivi e delle biblioteche, ecc.) è stato il fatto che il ministro Franceschini, per introdurre un numero così elevato di nuovi istituti periferici (49 più alcuni uffici centrali), non abbia né previsto, né rinvenuto e investito nuove apposite risorse di personale e di mezzi, pur essendo allora il numero 2 del PD nel governo Renzi, e abbia realizzato l’intera riforma sotto il vincolo del ‘costo aggiuntivo zero’ imposto dal Ministero dell’economia. Ma in tutti i ‘giochi a somma zero’ il guadagno di una parte è costituito dalla perdita di un’altra. Nelle riforme Franceschini, l’organizzazione della conservazione e fruizione ha guadagnato le risorse istituzionali che l’organizzazione territoriale della tutela e i settori archivistico e bibliotecario hanno perso a suo favore in termini di riduzione e accorpamento di posti dirigenziali, ovvero di rango organizzativo di istituti. Questo è un fatto incontrovertibile che la ‘propaganda’ martellante del ministro – che è giunto perfino a vantare di aver ‘potenziato’ la tutela sul territorio – , del suo entourage e dei loro corifei accademici e mediatici ha cercato sistematicamente di mistificare come positivo, mentre non ha certo cancellato le sue accennate dirette conseguenze negative, ancora in atto.
La parte ‘positiva’ dichiarata del disegno da cui muoveva la riforma era quella di potenziare e rendere gestionalmente autonomi i musei, direttamente i più importanti e indirettamente i minori, distaccati dalle soprintendenze e inquadrati in separate apposite organizzazioni regionali. A favore del mero potenziamento della fruizione dei beni culturali sul modello museale principalmente diffuso negli altri paesi, gli argomenti non sono certo mancati, pur se ve ne erano altrettanti e più convincenti in senso contrario, basati sulla specificità storica del territorio e del modello museale italiano. Anche la Commissione Franceschini, nel suo studio pubblicato nel 1967, aveva raccomandato di conferire un’autonomia gestionale ai grandi musei, ma aveva posto la condizione che rimanessero incardinati nell’ambito delle rispettive soprintendenze territoriali, ossia aveva raccomandato di mantenere il modello tradizionale di integrazione fra tutela, ricerca e conservazione rappresentato storicamente dalle soprintendenze italiane, a partire da quella per le “Antichità e la conservazione dei monumenti della provincia di Roma”, istituita dal luogotenente del re Alfonso La Marmora l’8 novembre 1870.
La benemerita Commissione Franceschini aveva preconizzato l’istituzione di un’apposita amministrazione autonoma specializzata per settori (le soprintendenze ‘nazionali’) per la tutela dei beni culturali. A ben vedere, un modello di amministrazione basato su criteri organizzativi di natura tecnico-scientifica e culturale, e quindi articolato in settori scientificamente specializzati piuttosto che improntato a criteri amministrativi e di mera efficienza economica, è peraltro implicato dalla stessa prescrizione costituzionale dell’art. 9, che pone alla Repubblica il compito della tutela del patrimonio culturale accanto a quello di promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, evidentemente sottolineando così l’affinità della natura di tali compiti e dei metodi e mezzi con cui devono essere assolti.
Il ministro Franceschini, per giustificare lo smantellamento delle soprintendenze specializzate e lo scorporo da esse dei musei, non ha invece mai formulato, né addotto, oltre a quello burocratico dello ‘sportello unico’, alcun articolato e convincente argomento tecnico-scientifico critico del consolidato modello organizzativo della tutela, che ha assicurato sul territorio italiano – caratterizzato tipicamente dalla grande dispersione dei siti e beni culturali – il rapporto organico della tutela con la conservazione, nel quale i musei non erano mere raccolte formate e incrementate a livello nazionale con acquisti e lasciti come negli altri Paesi, ma rappresentavano direttamente il territorio di riferimento, anzitutto in quanto raccolte centrali storiche degli stati regionali preunitari e soprattutto ricevendo progressivamente le emergenze del territorio di riferimento come individuate, acquisite, restaurate e mediate dalle soprintendenze competenti, modello che ci era invidiato da tutto il mondo.
Dalla totale mancanza di qualsiasi apposita e specifica motivazione critica su una presunta inadeguatezza o maturata insufficienza del predetto consolidato modello organizzativo integrato della tutela e conservazione territoriale nel nostro Paese da parte del ministro o dei suoi consiglieri si deve logicamente dedurre che lo smantellamento di tale modello organizzativo sia stato operato solo quale consapevolmente accettata conseguenza automatica deleteria della pars construens relativa al potenziamento della rete museale. Ma sulle pregiudizievoli implicazioni e potenziali conseguenze strategiche generali della sciagurata separazione della fruizione e conservazione dalla tutela territoriale nel settore delle ex Belle Arti operata dalle riforme Franceschini e sull’adeguatezza – invero del tutto discutibile – dello stesso nuovo modello delle ‘direzioni regionali dei musei’ minori, altri hanno ampiamente scritto e scrivono in questa sede.
Qui vorremmo invece limitarci più specificamente ad occuparci dell’altro cambiamento generale apportato dalla riforma Franceschini al modello organizzativo delle soprintendenze, costituito dall’unificazione della loro tipologia in un unico modello di soprintendenza ‘mista’ per tutti e tre i settori tradizionalmente distinti. È da ribadire che tale cambiamento non deriva né logicamente né tecnicamente in alcun modo dalla separazione della tutela dalla fruizione, ovvero dallo scorporo dei musei resi autonomi e di quelli inseriti nei poli regionali, la quale avrebbe potuto avvenire semplicemente introducendo nuovi rispettivi appositi posti dirigenziali e direttivi (nonché risorse organizzative e di personale aggiuntivo in ragione dell’aumento del numero degli uffici, che non ci sono state), ma risulta automaticamente ed esclusivamente dal vincolo imposto dal ‘gioco a somma zero’, ovvero dalla mancata volontà del ministro o, se si vuole, del governo Renzi1 , di introdurre, per attuare una così rilevante riforma, la necessaria deroga al principio imperante dell’invarianza della spesa e rinvenire e investire tali risorse. Va vista in tal senso anche la restituzione al MiBAC del compito della tutela dei beni librari non statali (prima svolto in base al d.p.r. n. 3/1972 dalle Regioni, alle quali erano state trasferite le ‘soprintendenze bibliografiche’), operata con un ‘colpo di mano’ legislativo del governo Renzi2 senza riassegnare al MiBAC anche le necessarie risorse strumentali e di personale, per cui tale onere è stato del tutto impropriamente accollato alle soprintendenze archivistiche – anch’esse divenute così ‘miste’ -, già ridotte in gravi difficoltà per via del generale e progressivo svuotamento degli organici a svolgere in modo adeguato la tutela dei beni archivistici.
Un sostenitore della riforma Franceschini ha affermato (genericamente) che l’unificazione delle soprintendenze da questa introdotta sarebbe “frutto di una riflessione che risale agli anni ’70 del secolo scorso”3 . Non sappiamo a quali testi l’affermazione si riferisca, né ci risulta rilevanza e continuità fino ai giorni nostri di una simile ‘riflessione’, alla quale peraltro non risulta che il ministro interessato abbia mai fatto espresso riferimento. Risulta invece, al contrario, che non vi siano mai state specifiche rilevanti obiezioni alle tesi in merito della Commissione Franceschini, la quale, dopo aver acquisito pareri e documenti di numerosi docenti universitari, soprintendenti, altri esperti ed associazioni del settore, ha sostenuto ampiamente il principio organizzativo basato sulla competenza tecnico specialistica per settore di beni ed in modo così netto da proporre la soppressione delle poche “soprintendenze miste” delle Antichità e Belle Arti allora esistenti. L’attribuzione della competenza di tutela di più tipi di beni (solo architettonici e storico-artistici) alle stesse soprintendenze (solo otto) rispondeva, a partire dalla riforma Bottai del 1939 ad esigenze meramente logistiche, in quanto in alcune province l’entità ridotta dell’onere di tutela non giustificava l’esistenza di organi distinti. La Commissione ha peraltro raccomandato di “non adottare per l’organizzazione delle soprintendenze moduli stereotipi” e di stabilire esclusivamente soprintendenze di settore variando eventualmente a tal fine la rispettiva competenza territoriale, non legandole meccanicamente a un’unica dimensione territoriale (p.es. provinciale), in modo da consentirne la specificità settoriale della tutela su tutto il territorio. Massimo Severo Giannini (redattore del d.p.r. 805/75, che all’art. 30 prevedeva esclusivamente soprintendenze specifiche per ciascun settore di beni) si è, per gli stessi motivi, nel 1986 dichiarato contrario a “delegare agli stessi organi tanto la tutela dei beni archeologici che la difesa del paesaggio”4.
La motivazione per cui le soprintendenze uniche costituirebbero uno ‘sportello unico’ per le pratiche dei cittadini di autorizzazione ad interventi su beni che implicano più competenze specialistiche di tutela (la quale rivela peraltro una concezione meramente burocratica della funzione di tutela) non tiene anzitutto conto che il compito primario delle soprintendenze ai sensi dell’art. 9 Cost. è quello di tutelare i beni culturali e non quella di fornire servizi pubblici generali ai cittadini mediante ‘sportelli’ come p. es. le poste, per cui è esigenza di ordine primario assicurarne la massima competenza tecnico-scientifica ed efficienza. All’esigenza, connessa all’attività di tutela, di rispondere in modo unitario, secondo le norme sulla trasparenza delle attività amministrative previste dalla l. n. 241/1990, alla più particolare e ridotta categoria dei cittadini interessati ai beni sottoposti a più tipi di vincolo (p. es. un immobile sottoposto a vincolo architettonico per le strutture e anche a vincolo storico-artistico per apparati decorativi affissi), anziché un’impropria soluzione organizzativa generale che unifichi le rispettive soprintendenze, poteva e può essere data una più adeguata soluzione funzionale specifica che ne coordini le attività a tal fine. Infatti, dal punto di vista funzionale, l’istanza del cittadino relativa a un bene implicato in più profili di tutela richiede comunque sempre ai fini decisionali finali il coordinamento di diverse corrispondenti competenze tecnico-scientifiche che prima erano in capo a diversi soprintendenti e ora, in base al regolamento del 2014, sono in capo a diversi rispettivi ‘funzionari di area’ delle soprintendenze uniche. La funzione di coordinamento fra i responsabili della procedura nei confronti del cittadino ai sensi della l. 241/90 per le diverse competenze tecniche potrebbe quindi, anche nel quadro dell’organizzazione per soprintendenze specializzate, essere affidata, in base ad apposite norme e istruzioni regolamentari applicative, a un funzionario responsabile ‘unico’ (ai sensi della l. n. 241/1990) – per es. in base alla competenza prevalente – che riceve l’istanza presso una soprintendenza specializzata competente per uno dei profili di tutela, il quale agirebbe poi nei confronti del cittadino come coordinatore degli altri funzionari istruttori dell’altra/altre soprintendenze competenti per gli altri profili, ai quali avrà trasmesso l’istanza per la parte di competenza provvedimentale del loro istituto, e costituirebbe quindi funzionalmente a tutti gli effetti lo ‘sportello unico’ per il cittadino che ha presentato l’istanza. Pertanto non vi era, in base alle norme vigenti in materia, nemmeno alcuna necessità funzionale di unificare organizzativamente le soprintendenze specializzate per assicurare ai cittadini un c.d. ‘sportello unico’.
Sono state proposte dalle organizzazioni sindacali e dalle associazioni del settore, fra cui in primis da Italia Nostra, modifiche sostanziali alla riforma Franceschini che avrebbero potuto rimediare allo smantellamento del modello territoriale integrato specializzato di tutela, e cioè alla separazione dei musei e siti non autonomi dalle soprintendenze e alla loro fusione in un modello ‘misto ‘ unico generale.
Secondo tali modifiche, di cui qui ci assumiamo la responsabilità di una sintesi particolare, per restituire all’organizzazione della tutela il modello integrato specializzato smantellato per dare posti dirigenziali ai musei autonomi, le soprintendenze ‘uniche’ potrebbero rimanere per motivi di scala e logistici, secondo il precedente modello delle soprintendenze ‘miste’, solo in 3-4 regioni di minori dimensioni. In altre 12-13 regioni si dovrebbero anzitutto ricostituire le soprintendenze archeologiche specializzate (la cui assurda soppressione, in un Paese dal patrimonio archeologico diffuso ricco come quello italiano, è stata denunciata da tutto il mondo accademico e culturale di riferimento con un appello che ha raccolto oltre 1200 firme) – almeno una per regione, salvo le minori dove le competenze archeologiche possono essere assegnate alle soprintendenze omologhe di regioni maggiori adiacenti e salvo il Lazio che ne dovrà avere una seconda solo per Roma (dove vanno unificati i ‘parchi’ cittadini e la soprintendenza possa come prima fruire delle risorse del Colosseo per la tutela). Alle soprintendenze archeologiche dovrebbero essere incardinati, oltre naturalmente ai siti, i musei archeologici non autonomi, ai quali dovrebbe essere restituito il ruolo che hanno sempre avuto di mediatori fra le soprintendenze archeologiche e le emergenze del territorio, in modo da consentire alle soprintendenze di svolgere efficacemente le loro naturali funzioni di ricerca, raccolta e conservazione di tali emergenze.
In 15 regioni dovrebbero essere ricostituite anche le soprintendenze ai beni architettonici e al paesaggio per consentire al MiBAC di esercitare una più specifica, incisiva ed efficace azione di tutela del paesaggio (diverse regioni sono ancora prive di piano paesistico) e di competente interlocuzione con le Regioni in merito, nonché le soprintendenze ai beni storico-artistici, almeno una per regione ed in 4 regioni maggiori anche più di una a livello sub-regionale (p. es. per le aree urbane di Roma, Firenze, Venezia, Napoli), alle quali va restituito il coordinamento dei rispettivi musei e monumenti minori non autonomi. Anche per contenere l’impiego di posti dirigenziali, il potenziamento delle attività di tutela sul territorio in modo da corrispondere ai diversi oneri quantitativi non dovrebbe comunque basarsi tanto sulla moltiplicazione delle soprintendenze a livello sub-regionale, come si è fatto in tempi passati magari, talora anche per motivi ‘clientelari’, ma dovrebbe basarsi sugli uffici decentrati potenziandone il personale.
Per quanto riguarda i musei minori non autonomi, unificati dalla riforma Franceschini sotto le direzioni regionali, all’esigenza di una maggiore autonomia gestionale e di un coordinamento specifico, potrebbe essere data una risposta alternativa più corretta aggregandoli in ‘poli’ cittadini o ‘reti’ museali territoriali di contenute dimensioni sub regionali – sempre incardinati nelle soprintendenze quali organi con apposita direzione di funzionario tecnico e capitolo di spesa – , suscettibili di formare complessi più organici e ‘percorsi’ o ‘circuiti’ integrati di fruizione per tematica o prossimità spaziale, che avrebbero anche maggiore valenza turistica. La direzione generale di musei potrebbe in tale quadro, oltre a mantenere il coordinamento e vigilanza dei musei autonomi (da essa per definizione non dipendenti) mantenere un coordinamento funzionale più generale dei soli poli cittadini o reti territoriali integrate, come sopra individuate. Per alcuni musei autonomi che in precedenza avevano maggiore valenza territoriale diretta (p. es. il Museo nazionale di Napoli rispetto agli scavi di Pompei ed Ercolano) andrebbe comunque recuperato un rapporto funzionale con le rispettive soprintendenze archeologiche. Sempre per adeguare l’organizzazione alle specifiche competenze tecnico-scientifiche, la tutela dei beni librari non statali, impropriamente attribuita alle soprintendenze archivistiche, dovrebbe essere affidata ad appositi uffici, come lo era presso le Regioni, cioè alle biblioteche statali dirigenziali o, in regioni in cui mancano, ad appositi uffici staccati presso le soprintendenze archivistiche, coordinati funzionalmente dalla Direzione generale biblioteche.
Il ministro Franceschini non solo non ha mai voluto nemmeno prendere in considerazione simili ragionevoli e sostanzialmente condivise proposte, ma, con il d.p.c.m. n. 169 del 2 dicembre 2019, che ha ampliato l’organico dirigenziale del MiBAC di 25 nuovi posti, ha invece preferito dedicare le nuove risorse (con le quali avrebbe anche ben più largamente potuto effettuare le suesposte modifiche) a creare sette nuovi musei autonomi di media importanza e incrementare significativamente gli uffici dirigenziali burocratici centrali del segretariato generale e delle direzioni generali.
Di fronte a una simile perseverazione del ministro, non rimane che constatare il deliberato protratto smantellamento del sistema specializzato e integrato territorialmente della tutela, malgrado vi fossero e vi siano le risorse dirigenziali per evitarla rispondendo positivamente alle predette proposte senza modificare sostanzialmente il neo-isituito sistema dei musei autonomi e passare a considerare più approfondiamente le implicazioni negative di tale scelta politica.
Tornando al nostro tema generale, il principio su cui si basa tradizionalmente l’articolazione in settori di beni dell’organizzazione della tutela, che è quello della competenza scientifica specialistica necessaria per trattare il rispettivo tipo di bene culturale riferibile a una rispettiva distinta disciplina scientifica, si fonda su un più generale principio epistemologico e sociale. Dai gruppi umani primitivi alle moderne società tecnologiche, la divisione del lavoro è un carattere essenzialmente connaturato con la stessa società umana in quanto organizzazione per assicurare la sopravvivenza e soddisfare i bisogni dei suoi membri. Con il progredire della civiltà e dell’articolazione della divisione del lavoro produttivo in attività e sub-attività differenziate, è emersa come fattore essenziale di sviluppo l’esigenza del possesso da parte di chi svolge tali attività di una specifica competenza. Già Senofonte aveva espresso il principio fondamentale in materia per cui “è impossibile che un uomo dai molti mestieri possa farli tutti bene…di necessità, chi svolge un compito molto specializzato lo farà nel modo migliore”5. Con lo sviluppo della scienza e della tecnica moderne, al processo della specializzazione lavorativa e professionale nelle attività produttive e sociali si è strettamente connesso un processo di specializzazione delle discipline scientifiche e delle tecnologie ad esse attinenti, che ha portato a una proliferazione di branche distinte, ciascuna delle quali ha assunto una ampiezza di contenuti e peculiarità di metodi tale da rendere ormai praticamente impossibile allo stesso individuo di padroneggiare completamente più discipline come avveniva per i geni universali dell’antichità e del Rinascimento.
La conoscenza scientifica, storica e materiale specialistica del bene culturale è infatti la premessa indispensabile per la sua tutela e conservazione, per il suo trattamento gestionale e per la comunicazione mediata del suo contenuto al pubblico in forma di fruizione e di valorizzazione. Per la formazione di tali competenze esistono consolidate discipline scientifiche il cui insegnamento è impartito da apposite strutture universitarie (dipartimenti, facoltà, scuole di specializzazione) e ministeriali (Scuole di restauro e Scuole di archivistica presso i principali archivi di Stato) specificamente dedicate a ciascuna tipologia di bene culturale. Da tutto ciò è derivata la formazione di distinte categorie di funzionari e dirigenti tecnico-scientifici specializzati preposti ai compiti di tutela relativi a ciascun tipo di bene nell’ambito dell’organizzazione articolata in rispettivi ‘settori’.
Tutta l’impostazione della proposta della Commissione Franceschini si basava su questo principio di competenza scientifica e di connessa articolazione per settori, al quale l’organizzazione delle amministrazioni confluite nel Ministero e quindi quella del Ministero stesso, si è sempre attenuta quale principio fondamentale di tutto l’ordinamento. Benché gli organi periferici della ex Direzione generale delle Antichità e Belle Arti fossero tradizionalmente dipendenti da un unico organo o direzione centrale (poi scomposta in direzioni di settore dalla riforma Veltroni del 1998 e ricomposta in stadi successivi dalle riforme Franceschini), la ripartizione esclusiva fra gli istituti delle rispettive materie di competenza, la precisa determinazione dei rispettivi organici specialistici e la relativa autonomia tecnico-operativa di cui le soprintendenze godevano, essendo i compiti della direzione generale molto maggiormente di supporto e coordinamento amministrativo piuttosto che di controllo e direzione tecnica di merito, rendevano i tre settori specialistici di istituti (architettonico, archeologico e storico artistico) ben distinti e separati per competenza. I loro istituti sono sempre stati presidi di specifiche tradizioni e culture di tutela riferite ai rispettivi patrimoni materiali vigilati e conoscitivi posseduti (gli archivi di lavoro e le biblioteche, di rilevanza ormai anche storica) e centri di eccellenza di studio e ricerca nelle materie di competenza. Gli altri settori – archivi e biblioteche – formavano peraltro già amministrazioni specializzate appartenenti anche a ministeri diversi (Interno), da oltre un secolo depositarie di rispettive analoghe consolidate specifiche tradizioni scientifiche, culturali e tecniche.
Dal punto di vista della scienza dell’organizzazione quella dei Beni Culturali era storicamente una struttura organizzativa precipuamente divisionale6 . Nella struttura organizzativa divisionale l’organizzazione si aggrega e differenzia in base ai diversi tipi di prodotti o servizi erogati e si articola in corrispondenti ‘divisioni’, ovvero settori, che sono centri di coordinamento e di responsabilità, ciascuno dei quali tratta un prodotto o servizio diversificato (nel caso del ministero, le direzioni generali per settore di beni) ed è articolato al suo interno per funzioni (i servizi delle direzioni generali). I settori sono in genere articolati su quattro livelli: alta direzione, direzioni di divisione, articolate a loro volta per funzioni e unità operative (queste ultime, nel caso del ministero, sono gli istituti tecnici periferici e centrali). A questo tipo di struttura si contrappone la struttura ‘funzionale’, nella quale l’organizzazione si aggrega in base alla tipologia di attività lavorativa o ‘funzione’ (p. es. progettazione, produzione, vendita) svolta dagli operatori per concorrere alla produzione dei medesimi beni e servizi erogati dall’organizzazione. Tale struttura richiede vari tipi di coordinamento ‘orizzontale’ (con correlativi ‘costi di transazione’) finalizzati all’erogazione finale del prodotto o servizio.
La struttura divisionale è indicata in caso di eterogeneità dei prodotti e servizi resi dal punto di vista tecnologico e/o produttivo (nel caso, forme differenziate specialisticamente di tutela), la quale richiede di distinguere e concentrare corrispondentemente le competenze e le risorse, ed è indicata particolarmente in caso di presenza di numerose unità periferiche operative di diverso tipo, come è il caso tipico del ministero. Gli aspetti positivi di tale struttura sono la potenzialità di sviluppo dimensionale collegato alle unità di produzione e alla diversificazione dei prodotti, la centratura sul cliente/utente, la maggiore autonomia decisionale e operativa delle singole unità operative, la specializzazione e la rispettiva responsabilità diretta dei manager per ogni singolo prodotto o servizio e area geografica, evitando che debba essere l’alta direzione a farsi carico di assicurare ovunque il coordinamento verso la clientela/utenza finale.
Si è addotto un altro argomento per giustificare la fusione delle competenze per materia delle soprintendenze in organi unici ‘misti’: l’esigenza che alla potenziale sinergia operativa delle diverse competenze di tutela (architettoniche, archeologiche e storico-artistiche) sullo stesso bene culturale (per es. un edificio insistente su emergenze archeologiche e dotato di apparati decorativi fissi moderni) debba rispondere metodologicamente una ‘interdisciplinarità’ di approccio in capo ad un soggetto amministrtativo unico. A quanto sopra esposto per ciò che riguarda i rapporti con i cittadini interessati al relativamente minor numero di beni sottoposti a vincoli di diversa competenza va aggiunta una considerazione più generale in merito. Di fronte all’inquietante accelerazione dello sviluppo delle specializzazioni e della relativa separatezza e ‘incomunicabilità’ fra loro è sorta, a partire dalla metà del secolo scorso, una reazione ideale a favore dell’“interdisciplinarità” come principio che dovrebbe promuovere l’unitarietà o integrazione della conoscenza umana mediante l’interazione fra diverse discipline che trattano aspetti diversi di fenomeni complessi, nei confronti dei quali l’uomo ha l’esigenza di assumere un atteggiamento pratico unitario determinato, come è tanto spesso il caso per quanto riguarda soprattutto i fenomeni sociali e culturali caratterizzati da una causalità multifattoriale. L’‘interdisciplinarità’ si distingue dalla mera ‘multidisciplinarità’ in quanto, mentre quest’ultima è soltanto additiva, nel senso che lo stesso oggetto viene separatamente ed esaurientemente studiato da due o più discipline, fra i risultati delle quali deve essere fatta ad altro livello una sintesi o giustapposizione, la prima è integrativa, nel senso che ciascuna disciplina viene modificata allo scopo di studiare l’oggetto interdisciplinare in modo da convergere verso nuove forme metodologiche e operative integrate comuni ad altre discipline concorrenti sullo stesso oggetto e da fornire risultati unitari. Il dibattito sull’interdisciplinarità è nato soprattutto negli ambienti accademici americani e ha avuto come obiettivo la creazione di nuovi rapporti e forme di interazione fra le diverse discipline umanistiche e scientifiche nella didattica universitaria e nel suo ordinamento che, com’è noto, negli Stati Uniti ha visto una notevole proliferazione di discipline affini apparentemente diverse, soprattutto nei campi delle scienze umanistiche e sociali (esempio tipico quelle incentrate sui gender studies). Julie Thompson Klein, che ha svolto il lavoro più approfondito ed esauriente in materia7, ha sottolineato come nei dibattiti si sia diffusa una “retorica dell’interdisciplinarità”, ormai divenuta senso comune a livello divulgativo e giornalistico, la quale tende a sostituire all’indicazione di concrete soluzioni scientifiche un mero whishful thinking che si limita a prescrivere in modo del tutto astratto in tanti contesti l’obiettivo del raggiungimento dell’interdisciplinarità come antidoto-panacea della frammentazione disciplinare e della inevitabile limitatezza di ogni approccio specialistico ‘esoterico’, di cui si auspica in qualche modo il ‘superamento’. Se certamente appare come obiettivo condivisibile in tanti contesti l’elaborazione di un approccio ‘interdisciplinare’ che possa integrare le conoscenze di tutti gli aspetti di una realtà ai fini di un intervento coordinato su di essa, tale obiettivo rimane solo un obiettivo auspicato se non si sono elaborati a monte e collaudati i concreti strumenti scientifici per ottenerlo, e cioè se le discipline interessate non hanno interagito fra loro producendo a livello di formazione degli operatori nuovi metodi e contenuti comuni interdisciplinari, utilizzabili indifferentemente da parte degli operatori così formati. Altrimenti stiamo parlando di un ben più banale e usuale approccio ‘multidisciplinare’ di operatori specializzati diversamente formati, fra i quali occorrerà sempre trovare modalità di coordinamento distinte e ulteriori, come è il caso dei Beni Culturali. Che il modello organizzativo realizzabile nelle soprintendenze, in cui operano appunto funzionari e dirigenti tecnici specializzati in diverse discipline, debba, finché non saranno formati dalle università dei ‘tuttologi’ in beni culturali a livello equivalente o superiore (vista la ben maggiore massa di conoscenze richiesta), esser quest’ultimo, dovrebbe essere ovvio. Infatti, la scienza – anche quella ‘interdisciplinare’ – non si può creare con un decreto ministeriale.
Se nell’ambito tecnico scientifico della tutela e del trattamento dei beni culturali di differenti tipologie è pur certamente necessario in particolari circostanze (per es. beni complessi che comprendono diverse tipologie) è più logico e più efficace raggiungere un approccio integrato che abbracci le competenze di più settori scientifici o di più discipline di studio coordinando funzionalmente, nel minor numero di casi di sinergie del genere occorrenti, le soprintendenze specializzate senza rinunciare al beneficio conoscitivo della loro elevata competenza specialistica, piuttosto che fondere le soprintendenze in soggetti ‘unici’ nei quali ciascuna competenza specialistica è necessariamente ‘diluita’ (ogni soprintendente ‘misto’ è per definizione incompetente in due terzi delle materie sottoposte), se non addirittura potenzialmente assente per mancanza dei rispettivi funzionari istruttori specializzati. D’altra parte, fra le diverse soprintendenze interessate a simili sinergie e gli uffici centrali di riferimento si è sempre sviluppata una efficace prassi di collaborazione operativa per individuare le priorità e modalità operative di intervento, tale che il coordinamento di tali sinergie non si è mai fatto sentire a livello periferico come un serio problema organizzativo del ministero, come conferma un sommario esame della saggistica in materia e il parere degli operatori.
Sembra, in conclusione, che la necessità di coordinamento nei casi di sinergia abbia piuttosto costituito un pretesto ideologico per giustificare l’accorpamento delle soprintendenze, operato in effetti per un motivo ‘negativo’ eterogeneo, precipuamente politico, e cioè quello di reperire ‘a costo zero’ le risorse per la costituzione dei (troppo) numerosi musei autonomi e dei ‘poli museali regionali’.
Come si è esposto, oltre al gravissimo indebolimento quantitativo e qualitativo dell’apparato di tutela, l’operazione complessiva delle riforme del ministro Franceschini comporta anche lo smantellamento tendenziale progressivo, ancor più grave sul piano culturale e organizzativo, dell’intera articolazione del ministero per settori specializzati in nome dell’asserita fungibilità generale di tutte le competenze sui beni culturali che si viene affermando. Un altro ordine di conseguenze negative rilevante di tale smantellamento attuale e tendenziale del modello organizzativo specialistico riguarda infatti l’ordinamento del personale dirigenziale tecnico-scientifico.
Con l’accorpamento delle soprintendenze in un modello unico si è ampliato e completato8 il disallineamento fra i numeri dei dirigenti tecnici delle diverse specialità (archeologi, architetti, storici dell’arte, archivisti, bibliotecari), come individuabili in base ai concorsi pubblici per la rispettiva qualifica mediante il quale sono stati immessi in ruolo, e il numero delle rispettive sedi di destinazione in modo da garantire che ciascuna fosse affidata esclusivamente al tecnico competente. In altri termini, non esiste alcuna determinazione della qualifica tecnica che deve avere il dirigente di ciascuna delle 39 soprintendenze ‘miste’. Tale disallineamento, che i governi e ministri di turno non hanno mai voluto correggere quando era assai più contenuto, impedisce ora del tutto di stabilire nel ministero una generale e inderogabile corrispondenza fra i diversi contingenti di dirigenti tecnici specializzati e le rispettive sedi di competenza, malgrado le norme prevedano l’istituzione di apposite sezioni per ‘professionalità tecniche specifiche’ nel ruolo unico dei dirigenti statali9, lasciando ai vertici politici e amministravi un sistematico ed eccessivamente ampio margine di discrezionalità nelle nomine, che diviene seriamente controproducente per la determinazione degli effettivi fabbisogni di organico e della programmazione dei concorsi per ciascuna specialità.
La conseguenza del tendenziale smantellamento dell’organizzazione per settori di tipologie di beni che però desta più grave preoccupazione è che in tal modo i futuri soprintendenti ‘generalisti’ non dovranno più necessariamente essere esperti in un determinato settore di beni di cui possano occuparsi esclusivamente con approfondita e specifica competenza tecnico-scientifica, come è sempre stato. Per un ormai breve prossimo periodo transitorio – finché gli attuali soprintendenti ‘unici’ specializzati, quasi tutti di età maggiore di 60 anni (dato l’ultradecennale blocco dei concorsi) saranno in servizio -, si avrà l’effetto della loro incompetenza nei due terzi delle materie sottoposte, a detrimento della necessaria autorevolezza di intervento della soprintendenza in quei settori, con più grave danno per la tutela dei beni architettonici e del paesaggio, che costituisce il maggior impegno dell’apparato di tutela ed è ridotta ad operare in condizioni sempre peggiori (v. ‘silenzio-assenso’, esteso contenzioso, palese ostilità del ceto politico locale, ecc.), effetto già paventato dalla Commissione Franceschini che era nettamente contraria alle soprintendenze ‘miste’. Ma tendenzialmente si intravede già in un periodo successivo l’inevitabile altro effetto consequenziale ‘permanente’ dello smantellamento dell’organizzazione per settori di beni, per cui gli specialisti potrebbero essere sostituiti alla guida delle soprintendenze generaliste da ‘manager’ generici della cultura non più specializzati in alcuna delle tradizionali discipline scientifiche dei beni culturali (e cioè incompetenti in tutte), ma formati dai numerosi e talora fantasiosi corsi e master di gestione e valorizzazione dei beni culturali forniti da numerose università, ‘manger’ che, come meno autorevoli esperti nelle materie tecnico scientifiche dei rispettivi specialisti, sarebbero anche molto meno indipendenti nelle decisioni tecniche di tutela e più docili alle direttive politiche. Costoro dovranno infatti secondo l’orientamento politico prevalente qui esposto, ben più che alla tutela dei beni, che presuppone la conoscenza delle rispettive discipline specialistiche, dedicarsi piuttosto a generiche attività di valorizzazione e commercializzazione mediante iniziative mediatiche e concessioni a privati, che maggiormente interessano alla politica. Questo disegno, già anticipato nel 2019 dal ministro Bonisoli, che ha sostenuto che l’attitudine principale necessaria per dirigere gli istituti del Ministero è quella amministrativo-gestionale, è anche implicitamente deducibile dalla più recente intenzione dichiarata dal ministro Franceschini di potenziare la ‘scuola superiore del patrimonio’ da lui istituita come scuola generalista di alta formazione per i futuri dirigenti del Ministero.
È quindi lecito pensare che ci si stia oggettivamente muovendo verso la transizione ad un nuovo e diverso modello di gestione degli istituti del Ministero e di quelli di tutela in particolare, in cui gli specialisti di settore non saranno più anzitutto i dirigenti soprintendenti (che non saranno più specializzati), ma solo i funzionari direttivi specializzati subordinati (archeologi, architetti, storici dell’arte, restauratori), responsabili per ‘aree funzionali’ di competenza di tutela o di servizi interni di ciascuna soprintendenza secondo il regolamento del 2014, i quali dovrebbero supplire alle carenze di competenza specialistica dei dirigenti-manager, ma solo sul piano meramente istruttorio, in quanto per essi non è prevista nei confronti dei terzi alcuna autonomia operativa o potere di tutela, che rimarrà esclusivamente in capo al ‘manager’.
D’altra parte tale tendenza si inquadra naturalmente nel più generale orientamento politico dei governi degli ultimi lustri di ‘monetizzazione’ della fruizione e valorizzazione dei beni culturali, vantati molto più che come risorsa culturale per lo sviluppo civile, come come risorsa economica che deve essere gestita da ‘manager’ – in contrasto con le chiare indicazioni della Corte costituzionale, che ha affermato la prevalenza del valore culturale del patrimonio “su altri valori, ivi compresi quelli economici”10. La tendenza alla monetizzazione e privatizzazione del patrimonio11 comporta una sempre maggior cessione di spazi alle concessioni di complessi statali a soggetti privati (fondazioni) e all’iniziativa privata nei confronti dei beni tutelati, comprese le misure di introduzione del silenzio-assenso, di deroga ai piani regolatori e, in ultimo, di accorciamento da 180 a 60 giorni dei termini per il rilascio delle valutazioni di impatto ambientale.
Una vera svolta da queste nefaste tendenze della (non) politica italiana sui beni culturali si potrà forse avere quando ci si convincerà a tale livello che la tutela dei beni culturali e del paesaggio non è un ‘lusso’ che non possiamo permetterci, dovendo anzitutto assicurare che non intralci l’economia del Paese alla quale deve essere subordinata, e che dagli stessi compiti di natura precipuamente culturale e civile che la Costituzione assegna all’organizzazione della tutela e al suo personale direttivo deriva che la strutturazione fondamentale della tutela deve essere per competenze scientifiche specialistiche. Occorre, in altri termini, che il ceto politico, dalla ricerca del consenso immediato sulla base della presunzione che ai cittadini italiani non interessi la tutela – come dimostra chiaramente anche p.es. il fatto che sta lasciando vacanti oltre il 50 % dei posti dirigenziali del Ministero -, bensì principalmente lo sfruttamento dei beni culturali e del territorio, possa passare alla ricerca del consenso sulla base della presunzione opposta.
All’improbo, ma – confidiamo – non utopistico compito di spingere in direzione di un simile cambiamento epocale della coscienza civile degli italiani, a cui da sempre si è accinta Italia Nostra, ci auguriamo di aver contribuito con questo lavoro.